giovedì 4 maggio 2023

Vedere le cose, guardare le cose (Proust a casa vostra)

Riporto una paginetta che avevo scritto in tempo di Covid e che mi pare abbia ancora oggi la sua validità.

Qualcuno ha scritto una frase il cui significato è che l’esperienza di andare in Francia per vedere i luoghi di Marcel Proust con i nostri occhi è meno importante che rimanere nei nostri luoghi e cercare di vederli con gli occhi di Marcel Proust. Frase tanto più significativa in questi tempi di reclusione forzata appunto nei nostri inveterati luoghi.

La frase suggerisce un processo che conduce a nuova consapevolezza e a una migliore comprensione. Tutti coloro che sono stati a “Dialogo nel buio” ne sono stati presi e l’hanno giudicato in modo molto positivo. Ma sensazioni simili si possono provare già semplicemente a casa nostra, meglio a finestre aperte, bendandosi gli occhi e cercando di percepire il mondo in quella situazione in cui il nostro consueto modo di interagire con esso è così ferocemente ridotto. Ben sappiamo che i non vedenti sviluppano modalità che noi, per troppa abbondanza, di solito releghiamo a un ruolo marginale: imparano a leggere il mondo in maniera diversa. Così è interessante andare a una forse non corretta ma suggestiva origine della parola intelligenza da “inter legere”. L’intelligenza sarebbe cioè la capacità di leggere le cose disaggregandole e guardandole nei loro non sempre evidenti collegamenti reciproci. In poche parole la capacità di leggere fra le righe del mondo che ci sta dinanzi.

E’ un processo continuo di acquisizione di consapevolezza a cui la nostra attuale reclusione, fra le sciagure che porta, può dare un contributo.

Cerchiamo allora di guardare con più attenzione il mondo da questa nuova prospettiva, sostituendo innanzitutto la moderna attitudine a privilegiare l’esperienza dinamica, che dimentica il tempo e preferisce mutare continuamente la collocazione nello spazio con una che si fissi nello spazio e ponga invece attenzione al cambiamento nel tempo. Un atteggiamento che i contemplativi (gli eremiti, per esempio) hanno sempre avuto. Fatto ciò, proviamo a “guardare”, ad occhi aperti o chiusi non importa, ciò che ci sta attorno cambiando le nostre ordinarie assegnazioni di importanza, visto che intanto fermi come siamo non ne dobbiamo necessariamente trarre un comodo personale, sociale o economico. Guardiamole gratis! Forse riusciremo a cogliere un altro valore di ciò che accade nel nostro ridotto spazio nelle ore che passano fra la levata e il buio.

La reclusione ci parrà meno pesante e ne usciremo arricchiti.

lunedì 19 dicembre 2022

E' cambiato il vento

Spaventate dalla tramontana le nuvole hanno iniziato a correre a rotta di collo verso sud, come pecore in fuga dal lupo. Ma lei implacabile le sbrana in pezzi e man mano il cielo si libera. Fra qualche ora nessuno potrà immaginare la strage e tutti saranno felici.



domenica 18 dicembre 2022

Salendo ai Forti da Sampierdarena

Abitavo a Sampierdarena, sulla strada che sale al cimitero della Castagna. Su alcune cartoline in casa c’era ancora scritto “Corso dei Colli” invece che “Corso Andrea Martinetti” e questo dava motivo di qualche soddisfazione per gli adulti, che subito dopo ricordavano con dispiacere proprio quel Luigi Andrea Martinetti che alla strada dava nome, il quale molti anni prima, era venuto in visita a portare il regalo di nozze, una biscottiera di vetro. Molti anni prima: erano forse meno di venti ma per un bambino sono tantissimi. Il fatto che ora vent’anni mi paiano pochi è uno dei motivi di nostalgia e tristezza.

La mia generazione è cresciuta contemporaneamente ai palazzi che venivano seminati sulle colline per soddisfare l’appetito di case di una città che doveva accogliere nuovi cittadini e dare bagno e riscaldamento a quelli che c’erano già; e anche l’appetito dei costruttori di grande e piccola taglia a cui corrispondeva l’astenia di amministratori incapaci o impotenti a regolare ciò che stava avvenendo. Così in poche decine d’anni scomparve un paesaggio di piccoli centri, di orti di villa e di fasce creato nell’arco di secoli. Ma forse era inevitabile che succedesse. La scomparsa dei piccoli centri e delle ville è stata per Genova una perdita davvero grave, era un carattere molto importante.

Ho detto “ville” perché allora per me la villa non era un una residenza o un parco ma un grande appezzamento a fasce, tenuto ad orto e frutteto, dove i “manenti” dei signori coltivavano, o meglio un tempo avevano coltivato, con cura e precisione ogni ben di Dio. E così era per tutti, credo: se uno non aveva sentito una chiamata gli si chiedeva se era andato “in fondo alla villa”, nell’ultima fascia.

Da quella strada cittadina con scalinate o passetti nelle ville si raggiungevano subito le vecchie creuse di crinale e da qui ci si poteva dirigere verso i Forti che stavano sopra Sampiedarena. “Andare sui Forti” non era solo il prototipo della gita, ma pure il modo più breve per passare da un mondo all’altro, dalla Genova degli anni ’50 a un mondo di contadini che allora vedevo eterno e immutabile. In realtà quel mondo precedente era già morto, ma era ancora ben presente nel ricordo degli adulti e quindi, in un certo senso, vivo.

Sui Forti con i miei ci sono andato poco, ero il più piccolo della famiglia e mio padre aveva tirato i remi in barca: non ne aveva più voglia, e persi i contatti con le sue compagnie di gitanti. Così quando succedeva non ero abituato, mi lamentavo e lui diceva che non ero portato, al contrario dell’altra progenie, che però aveva avuto a disposizione genitori più giovani. Un circolo vizioso che non si ruppe mai, ma va bene lo stesso.

Arrivati alla Crocetta dove si incrocia il percorso da Genova verso la Val Polcevera e poi verso nord, nel punto sotto il Forte a cui quella Crocetta dava nome, era d’obbligo ricordare che proprio lì un tempo si trovava l’osteria con ballo del “Caiga”, luogo di scampagnate, balli e feste campestri. Chissà, forse il Caiga (Calzolaio) doveva prendersi cura delle scarpe fruste dei viandanti, i quali nell’attesa danzavano a piedi nudi!

Poco dopo si arrivava al Forte Crocetta, dove c’era anche una porta con arco a controllo della salita. Lì in quegli anni ’50 vivevano i più poveri degli immigrati che arrivavano dal Meridione: è il fenomeno dei “tuguri”, che oggi pare incredibile. Dall’androne del Forte uscivano dei bimbi piccoli con indosso solo una canottiera, non ho idea di come si vivesse lì, certo senza agi. Ma non era un fenomeno isolato: giù al mare c’erano “quelli di Ponte Canepa”, forse un pochino più su nella scala; ce n’erano anche nella mia classe alla scuola elementare.

Passato Forte Crocetta si era a pieno titolo in gita “sui forti”. La mulattiera proseguiva verso Begato e da quelle parti si trovava il Forte Tenaglia, che però si vedeva solo quando si andava al cimitero della Castagna: un altissimo muro con bucature, seminascosto dalla vegetazione. I Maya non andavano di moda, altrimenti li avrebbero associati anche al Forte Tenaglia. Se si stava sul versante Nord si arrivava sotto il Forte Begato e qui si era davvero distanti dalla città. In quella zona si staccava via ai Piani di Fregoso, uno dei primi luoghi di cui ho imparato il nome; mi dava l’idea di un un bel posto di campagna con le osterie, forse per via di quei “Piani”, che prima delle ripide scale verso Forte Begato erano particolarmente invitanti, ma ignorati.

All’epoca Forte Begato era ancora sotto servitù militare, credo una polveriera (codice 21028?). In quell’area si stava attenti, pochi anni prima c’era stato un incidente mortale per una coppietta che si era appartata nel posto sbagliato o forse aveva risposto nel modo sbagliato a qualche altolà. Anche se si fossero conosciuti i dettagli non si raccontavano certo a un bambino. Perché anche di quello si trattava, allora: delle coppiette sui forti. Senza seconda casa o auto l’espressione “andare in camporella” aveva ancora il suo significato originario di coppie che si appartavano per poi ritornare con nonchalance sul sentiero dove passavo con mio padre. Oggi se scrivi al pc “andare in camporella” oltre alla tradizionale definizione ti appare (provare per credere) il tragitto sino a Camporella in provincia di Massa, per me adesso “2 ore 5 min (144,8 km) passando per A12”. Altri tempi, certo.

Allo Sperone forse c’erano ancora i militari, o qualche centro controllo dell’Aeronautica, ma da qualche parte si riusciva a entrare, per uscire poi sul pianoro esterno da dove finalmente si potevano ammirare i 3 Fratelli (in realtà due più il loro Padrino, piuttosto stanco e stravaccato il cima al suo cocuzzoletto) e soprattutto il supremo Diamante, pregiata e ultima meta che con la sua cupola sembrava un osservatorio puntato verso la storia.

Senza GPS, senza carte (c’erano solo quelle IGM ma gli insediamenti militari erano tutti obliterati) né alcun servizio satellitare, senza capi tecnici o tessuti particolarmente performanti, senza particolari ambizioni prestazionali se non quella di arrivare alla meta programmata, senza sapere che si trattava di attività outdoor perché non si conosceva l’inglese, gli escursionisti dell’epoca erano solo delle persone -in genere allegre- che passavano una giornata all’aria aperta. In un certo senso anche loro dei sopravvissuti, abitanti di quel mondo che andavano a ritrovare alla domenica.









domenica 17 gennaio 2021

Alexa nel flusso del nostro tempo che passa

Per esempio, uno dei vantaggi di invecchiare non troppo rimbambiti è che ad Alexa si puo dire "Alexa, metti musica anni xx" dove xx assume ben più valori di quanti ne possano vantare i cosiddetti giovani; si può spaziare a volontà. E "mi ci dite" poco?

sabato 2 gennaio 2021

 Ricordi

(dal "Fondo antico dei quaderni", 4)

Appunti di un escursionista

(29.09.96)



Intorno a Genova non c'è una vera e propria “montagna”, da poter essere citata e spesa come tale a settembre dopo le ferie. Esistono però tanti monti che sino a non molti anni fa imponevano a chi ci viveva un ambiente altrettanto severo e che oggi offrono lo stesso isolamento e lo stesso senso di infinito. Per ragazzi un squattrinati e fantasiosi come eravamo noi trentanni fa è come dire "mangiare bene e con poca spesa".

Quando ho iniziato ad andare per I monti era il '67, '68. Allora non ci avevano ancora insegnato che cosa è il trekking, sicché l’escursionismo -che è la proprio la stessa cosa- era ancora, al pari delle bocce, una cosa da pensionati forse svaniti (Boncompagni, “Alto gradimento”, circa il 1969). Erano lontane le Alte Vie ma esisteva il libretto dei segnavia della FIE che ormai da decenni con efficienza e senza clamore aiutava I volonterosi a girare senza perdersi e a combinare gli itinerari. Siccome il trend era tutto sul sociale e sul dibattito, un'attività come “andare in gita”, così si diceva, un po' solitaria e favorevole più alla discussione personale che all'approfondimento assembleare  era considerata bizzarra; forse c’era anche l’avversione per l’attività fisica in quanto tale, che la memoria associava spesso al vigorismo bicipitale del ventennio non molto lontano e a qualche tardo epigono di esso ancora in circolazione.

Così talvolta anche noi uscivamo dalla città un po' imbarazzati, in genere di mattina molto presto con il primo autobus o treno e con gli zaini sulle spalle. Gli zaini, altro argomento importante. L’Invicta era poco conosciuta, non aveva ancora iniziato a combattere davanti alle scuole di tutta Italia. I nomi erano Cassin, Millet e altri che finivano tutti per consonante. Ma a Genova resisteva ancora un artigiano, che in vico Lavagna ne faceva di bellissimi con l’armatura in vimini, il sacco in tela marrone e I tiranti in pelle vera, che adesso con un piccolo reshaping potrebbero benissimo stare nelle vetrine di Vuitton.

Se uno non si accontentava dei segnavia della FIE e voleva personalizzarsi il percorso o magari farne uno non segnato I riferimenti erano le tavolette al venticinquemila dell’IGM che vendevano in poche librerie. In genere l’ultimo aggiornamento era del ‘36, salvo per qualcuna sulla costa dove trovavi addirittura l’autostrada per Savona, quella vecchia naturalmente. La cartina, senza strade e le frazioni isolate raggiungibili con sentiero o mulattiera era molto bella da leggere e fascinosamente evocativa di wilderness. Come inconveniente la progettazione del percorso era poco aderente alla realtà, ma molto più avvincente: "on the field" bastava far finta di non vedere la strada quando si era costretti ad attraversarla e l’incanto era ricreato.

Tutte le guide che ci sono adesso, anche nelle edicole, per andare a piedi, a cavallo, in mountain-bike e fra un po’ anche in deltaplano e con gli sci d’erba erano ancora nella penna di Dio. C’era il Dellepiane, ultima edizione il 1924, richiestissimo, qualche vecchia guida di Tamari e qualche brochure, che magari ti mandavano in omaggio tanto erano sorpresi dalla richiesta di informazioni. La guida Montagna-Sabbadini del CAI Ligure ha aperto nel ‘74 la strada a quelle della nuova generazione, ma ora la qualità è qualche volta un optional e spesso si sente un po' troppo odore di moda o business.

Nel libretto dei segnavia il percorso piu’ importante, la main road degli escursionisti, erano le palline blu, che poi sono diventate l’Alta Via e che cucivano I percorsi rossi sul mare con quelli gialli sulla padana, dal Sassello al Gottero. Fare tutte le palle blu era una integrale di grande pregio. Poi qualcuno e’ partito dalla Calabria, ha risalito tutta l’Italia e la gente ha finalmente iniziato a pensare che l’escursionismo poteva essere alternativo ed ecologico.

Infatti anche l’ecologia era intanto esplosa come moda (‘70 Anno della Conservazione della Natura, I limiti dello sviluppo in una primavera silenziosa simulata dal club di Roma, il ddt nelle foche polari, ... ), rivestendo le scienze naturali -di cui l’ecologia è parte e che fin allora erano state considerate adatte solo a signori in divisa coloniale e retina per farfalle- con una vernice accattivante. Da allora i media hanno cavalcato l’ecologia senza scenderne più giù, anche perché nel frattempo il cavallo ha iniziato a fare tendenza anche se sporca per strada nei momenti meno opportuni. E va già bene così, perche’ un messaggio giusto, anche se disturbato da tanto rumore di fondo e da segnali spuri, è utile; tanto più che la nostra capacità operativa di far danno è cresciuta con il quadrato del reddito, lasciando indietro di molte lunghezze le due educazioni ambientale e generica, che al reddito in quanto tale sono molto più refrattarie.

Parlavamo di primavera silenziosa. Anche Caproni ci ha parlato del silenzio, ma ce ne siamo accorti molto meno e l’esodo è continuato indisturbato. Ormai è finito e anche l’ultimo della Moglia ha staccato la lanterna dal muro ed è sceso nel vallone. Al silenzio dei monti risponde quello cittadino, "sordo d’un frastuono senz'ombra d’anima. Di parole senza più anima". Sarà difficile ritornare alle "matte risate, la sera, all'osteria", e riportare lassù qualcosa che si è perso se anche qui in città non sappiamo dove cercarlo.

Le strade erano già tante ma un po' meno di adesso. Così capitava di salire da Apparizione al Fasce e arrivati alle case Becco, dove allora finiva il tracciato della “grande corniche” di casa nostra, di trovarsi a un valico come l’avevano visto cent’anni fa i mulattieri e I viandanti che non per hobby ma per fatica e per necessità salivano dalla riviera verso l’interno. Una casa abbandonata, già osteria, un grande albero e la selletta con il verde del prato pulito, in un pomeriggio di aprile sul tardi. Era una bellezza incredibile, sospesa dal tempo, che abbiamo buttato via per eccesso di ignoranza. Poi da colle Caprile scendevi con l'autostop e ti chiedevano chi te lo faceva fare.


L'Antola, che è sempre stato il monte dei genovesi, era come adesso una meta principe. In qualunque sabato e domenica ci trovavi qualcuno, e spesso anche durante la settimana. Qualcuno ci saliva di notte e numerosi erano quelli che andavano di inverno. Persino nella combinazione inverno-notte-neve non siamo stati soli.
L'Antola aveva un nume tutelare che gli escursionisti che hanno più di 40 anni ricordano tutti. Era l’Albina Musante che in qualunque giorno dell’anno tranne il martedì, giorno di rifornimento a Bavastrelli, ti accoglieva nella sua casa-rifugio. Adesso c’è solo un rudere diroccato a fianco al rifugio, che a vederlo ti piange il cuore, sicché quando vado su se posso salgo solo alla Croce senza neppure passarci davanti. Dopo tanti discorsi fatti da quando è morta l’Albina, aver lasciato andar giù quella casa è stata una terribile prova della nostra incapacità di salvare il nostro passato e i segni della nostra memoria, in tre parole della nostra colpevole ignorante cialtroneria. Ma forse ancora peggio è pensare che chiunque ci fosse andato dopo ci sarebbe vissuto in maniera tanto inadeguata che forse è meglio che le cose siano andate così, lasciando una memoria che si riapre ferita quando passi davanti al rudere e pensi ad allora.
L’Albina, che stava su con il suo silenzioso e timido fratello, brontolava sempre. Magari se volevi piantare la tenda lì vicino ti mandava via dicendoti di andare alla fontana dell’Antola verso Caprile, che lì le spaventavi le bestie (forse non ne aveva neppure più). Ti dava poche cose da mangiare, in genere prendevamo panini perchè oltre che in bolletta eravamo anche un po' schifiltosi. Aveva un vino aspretto e un caffè di quello lungo. Noi andavamo nelle stanzette a sinistra dell’ingresso. In quella in fondo c’era la stufa ed era la preferita. Se c'era neve qualcuno si toglieva gli scarponi e metteva i calzettoni ad asciugare sulle stanghette della stufa. Quando lei arrivava con la roba ti diceva di tutto, che quella non era una stalla e che se noi eravamo abituati così lo facessimo a casa nostra e non lì.
Poi la conoscevi davvero. Ti fermavi a parlare con lei, nella stanza di destra dove c’era una specie di banco di mescita. Scoprivi in lei una dignità incredibile nel vivere come ultima rappresentante di un mondo ormai scomparso, in cui nelle stazioni di posta -in fondo questo era casa sua- si apprendevano cose importanti di ciò che era successo a persone e in posti che non si potevano raggiungere altrimenti: Crocefieschi era “la Croce” e quando cambiava il tempo veniva la “nebbia lombarda”. Così capivi quanto eri distante dal suo mondo e che quando senza pensarci mettevi le scarpe sulla stufa era come se uno fosse entrato in casa tua a camminare sul tappeto con gli stivali infangati. Allora eri contento che lei ti desse un po' di confidenza e ti raccontasse le sue cose.
Ho il rimpianto di non aver fatto come Ugo e non averle mai chiesto, per non sembrare il turista a caccia di impressioni esotiche, se volevano, lei e il fratello, fare una fotografia con me davanti alla casa.


Se siete in gita, non chiedete mai la strada a uno del posto. A meno che non vi capiti di trovare l'unico romantico un po' balzano del paese, vi daranno l’indicazione per la carrozzabile più comoda e più banale perché le loro esigenze e il loro modo di vedere è diverso, più concreto del vostro. Se qualcuno vi chiedesse come andare a Santa Margherita direste il treno senza neppure pensare al vaporetto. L'atteggiamento alternativo romantico se ostentato può essere irritante per chi è sottoposto al pesante condizionamento della distanza e della difficoltà di spostamento.

Tutti assieme, cittadini e non, per motivi magari anche ad uno ad uno giusti, abbiamo buttato via tante cose che ora non sappiamo più dove cercare perché in Italia l'unica discarica a impatto ambientale tanto basso da non poterla ritrovare è quella della memoria. Ma tant'è ci basta di essere ecologisti e contenti e nel nostro cuore c'è sempre spazio per un mulino bianco dove tutto è sano naturale e genuino, possibilmente inodore incolore e insapore come l'acqua lievissima e purissima delle sorgenti alpine. Discorsi difficili per un povero escursionista dotato di tensione ideale standard e privo di stigmate intellettuali: meglio finirla lì.

lunedì 11 maggio 2020

Andrà tutto bene


News | Whopping Galaxy Cluster Spotted with Help of NASA Telescopes

Andrà tutto bene. Ma certo. Che frase banale e ammiccante!

Andrà: ma quando? E’ legittimo chiedersi piuttosto come adesso sta andando, e quindi ecco il verbo al futuro che va in crisi.
Tutto: che cosa è il tutto? Il tutto non è una grandezza misurabile perché misurare significa fare delle parti, e quindi è soggettivo. Il tutto di chi? Anche quello delle migliaia di morti e delle ancora più numerose migliaia di persone che quei morti hanno lasciato qui?
Bene: anche qui non capisco. Il bene è un concetto che comprende tutto e niente, se non lo si esplicita in fatti, relazioni, sentimenti.

Siamo alla solita eterna retorica, figlia anche del nostro ritenerci al centro del mondo e della storia; assolti dal dover delimitare pensieri e concetti, perché pensiamo che i nostri pensieri e concetti siano quelli possibili e solo quelli. Certo non è molto difficile dirlo, è piacione. Ci mette persino in una bolla di gradevolezza, come a dire a quanti ne sono fuori: perché non venite anche voi, perché volete rovinarci l’esistenza anche stavolta?
Allora proviamo, con umiltà, a guardare queste tre parole in controluce, per vedere le fibre che le tengono su in una frase, assoluta e forse assolutamente senza senso.

Certo prima o poi andrà tutto bene: ma per chi, entro quali limiti spaziali e temporali? Alcuni avrebbero preferito adesso, perché nel futuro intanto non ci sono entrati. Parlare al futuro in modo così assoluto è crudele e sotto sotto lo diciamo perché abbiamo la presunzione che entreremo in quell’elite di fortunati. Cosa a ben vedere non solo ingiusta, ma anche azzardata. Magari non ci entreremo affatto; stiamo attenti alle possibili fregature! Siamo così generosi da dirla anche solo per gli altri, dandola come spinta a coloro che nel futuro ci entreranno davvero, con noi o senza? Non ci credo.

Cosa sia poi il tutto, poi, non lo ho ancora capito.
Il tutto di coloro che in Italia ascoltano questa ormai insopportabile e fra non molto disgustosa e totalitaria alluvione di falsa e drogata fiducia che si riversa da notiziari, tuttologiche considerazioni di presunti maestri di vita, persino dalle pubblicità? A proposito: la pubblicità sì che è resiliente. La sua intelligenza e tempestività nel catturare l’attimo e di reagire con i messaggi giusti (per sé stessa) è davvero prodigiosa. Ma alla fine anche essa ci stufa. Almeno a me succede così.
Il tutto dell’umanità adesso? Il tutto dell’umanità anche per il futuro? Il tutto per tutti? Tutti chi? Ma santo cielo, la larghezza di universo che riusciamo a intercettare fra l’estremamente piccolo e l’estremamente grande e l’estensione di tempo che riusciamo a immaginare dal (forse) momento iniziale al (forse) momento finale sono tanto ridicolmente piccole che questa parola dovremmo lasciarla soltanto ai fisici ed ai filosofi. Ma tant’è ci riteniamo al centro dello spazio e del tempo e quindi li trattiamo con leggerezza in modalità agenda delle cose da fare e stanze da tenere in ordine: di conseguenza di tutto parliamo e straparliamo sempre.

Bene. Qui mi arrendo, anche perché il gioco ormai lo avete capito. E lascio a voi definire cosa è bene, ricordando che la definizione è talvolta consolatoria e non bisogna essere cinici. Si può solo sperare che tutte le nostre personali e singole definizioni riescano a stare sufficientemente bene una a fianco all’altra. Altrimenti sono guai, come dimostra la storia del genere umano.

Ma non siamo pessimisti. In fondo, andrà tutto bene. (Ma porca miseria, allora non ci siamo proprio capiti)

giovedì 24 maggio 2018

Cani e padroni


Anche i camminatori mangiano, talvolta in trattoria.

Così scrivo queste note per solidarietà verso i cani, il cui boom demografico offre sempre più spesso a noi umani opportunità di osservazione e riflessione.

E anche perchè due recenti viaggi in paesi meno ricchi e felici del nostro, Romania e Cuba, mi fanno pensare a quale strana malattia possa essere quella dei cani che fa sì che chi di loro vive in quei paesi meno ricchi e e felici, con poco da mangiare e padroni certo meno amabilmente amici e complici, si mostri apparentemente più sereno e felice.

Da noi li guardo languire sotto i tavoli dei ristoranti mentre i loro papà e mamma, che li hanno portati fuori in macchina per fargli fare il giusto moto, mangiano di gusto felici della bella giornata all’aperto che stanno trascorrendo. Alcuni, magari, i più giovani, si agitano e scodinzolano allegri sulle tovaglie dei vicini, che pieni di comprensione e indulgenza si congratulano con i genitori per la loro bellezza. Ma i più stanno coricati con lo sguardo spento e rassegnato ad aspettare sfiduciati qualcosa che non verrà mai. Abbiamo finalmente liberato gli essere umani da tutti i miti che si erano costruiti per rendere più accettabile la propria vita ed il proprio presente e non vogliamo liberare i cani che diciamo di amare tanto?

Allora penso che sarà pur vero che il cane è il miglior amico dell’uomo, ma forse sarebbe il momento di chiedersi, se proprio siamo tanto cinofili, chi diavolo sarà mai il miglior amico del cane. (Talvolta divago un po’ nei miei sconclusionati pensieri e mi stupisco come mai, da un punto di vista biologico ed etologico, il miglior amico dell’uomo non sia invece la donna -e vicerversa, naturalmente-, ma mi rendo conto di non aver sufficiente cultura per affrontare un tema tanto centrale).

Così da queste alte riflessioni scendo di nuovo in basso, sotto il tavolo assieme al cane che sta aspettando che la sua mamma finisca di fare la scarpetta nel laghetto di sugo rimasto dopo che si è spazzolata un bel piatto di ravioli, operazione questa finalmente troppo naturale e spontanea per non essere apprezzata; e assieme a lui mi chiedo se mamma e papà, allo stesso modo in cui hanno pensato a quale tipo di cane era più adatto a loro, avranno anche pensato a quale tipo di cane loro erano adatti. Forse un cane di peluche, che fra l’altro non caga neppure e non ti costringe al rito della paletta?

Caro cane hai tutta la mia solidarietà, ma sinceramente capisco poco la tua rassegnazione! Perché non cerchi di farti spiegare da un gatto come si trattano gli esseri umani? Lo dico per la tua dignità e senza alcuna malevolenza. E magari se ne hai l’occasione, fatti spiegare da un asino come si possa ubbidire quando è necessario, ma al tempo stesso conservare la propria personalità e un certo rigore anche nella situazioni più sfortunate! Perchè devi fare al tuo amato capo branco sempre gli occhi languidi ed “accettare da lui/lei tutto quello che viene”? Anche il poeta dice che dovrebbe essere lui, e non tu, a disperarsi perché non sa darti di più.

Se posso darti un suggerimento, entra in politica e fonda il Mollica-MOvimento di Lotta e LIberazione dei CAni consapevoli. E invece di abbaiare istericamente e sterilmente a degli sconosciuti e innocui passanti, alza artigli e canini contro il vero nemico, il tuo padrone! Mettigli paura e fagli capire che non sei un accessorio di abbigliamento o una cura palliativa per tutti i malanni che ha! Pensare a questa sgradevole realtà farebbe bene anche a lui, e alla sua consapevolezza.

Come vedi qua sotto, da parte mia ho fatto quanto potevo e mi permetto di sottoporti questo MaCaCo-Manifesto dei Cani Consapevoli, che intanto puoi iniziare a discutere con il tuo fratellino, il Pastore dell’Anatolia che i vostri amati padroncini hanno acquistato per farti compagnia durante la settimana nella vostra casetta di cinque vani tutti compreso a parte il balcone da 1.4*3 metrini quadrati, dove trascorri l’intera giornata a sognare domenica quando potrai finalmente dormire felice sotto il tavolo di ristorante di cui si parlava pocanzi.

Manifesto dei Cani Consapevoli
Io sono un cane fiero di sé stesso.
  1. Non sono tuo figlio e neppure un accessorio del tuo look.
  2. E non confondere tua moglie con mia madre, perché divento una belva.
  3. Non parlarmi come se fossi un umano e agissi secondo i vostri canoni e motivazioni, che fra l’altro mi sembrano piuttosto stupidi.
  4. E ricorda che non sono il tuo psicanalista: se non hai niente da dire taci.
  5. Non farmi fare cose che interessano a te con la scusa che sono cose che interessano a me.
  6. Non prendermi in braccio come un peluche, se non ci sono gravi motivi di salute.
  7. Non mettermi addosso vestine ridicole.
  8. Se il clima e la casa niente niente lo permettono, lasciami dormire fuori casa. Non voglio ridurmi ad essere come te.
  9. In città  raccogli le mie cacche anche quando nessuno ti vede: prima o poi qualcuno dovrà passare di lì, e comunque il mio Dio ti vede e ti punirà della figura -di merda- che ci fai fare.
  10. Quando mi porti fuori lasciami odorare quello che voglio senza strattonarmi come ti fa comodo: stai portando me a fare una passeggiata, non viceversa.
  11. Lavami: perché tu non te ne accorgi più, ma per mia disgrazia io puzzo e non voglio fare brutte figure.
  12. Se usciamo portati sempre un guinzaglio che non sia lungo quindici metri. E la museruola: un giorno o l’altro potrei farmi furbo e sbranarti.





giovedì 5 aprile 2018

Al Quirinale! Al Quirinale!

Sto pensando che una delle prossime mie mete potrebbe essere il Quirinale: l'abitudine di andarci a piedi si sta diffondendo e per una volta vorrei riuscire a intercettare una moda per tempo e non solo quando sta già passando. Magari anche Sergio potrebbe essere sollevato dal chiacchierare con uno che le scemate le dice gratis e in modo assolutamente disinteressato. Penso che si rilasserebbe non poco. Ma vedremo.

giovedì 4 gennaio 2018

Involgarimento dei nomi collettivi

Il concetto di nazione risulta scomparso dagli orizzonti lessicali e il suo epigono nazionalità è ridotto a casella di formulario.
Del popolo molti diffidano, forse per pudore retorico, forse perché il suicidio della sinistra e lo  snobismo politico lo hanno relegato fra le ascendenze familiari più sconvenienti, assolutamente inadatte all'odierno clima che fa desiderare a tutti, indistintamente e assolutamente, di essere esclusivi ed elitari.
Hanno valso per pochi anni la "società civile" e la "gente", passate di moda, la prima forse per l'efficace azione di lobbying da parte di tutte le altre forme societarie presenti nella penisola (incivile, militare, ecclesiastica, per azioni, in accomandita semplice, a delinquere, ... ); la seconda per il raddoppiamento della g iniziale, che l'ha resa francamente imbarazzante a chi abbia una pur minima pretesa di decoro borghese.
Così non si sa bene neppure a quale nome collettivo appoggiare la nostra scarsa consistenza sociale, visto che nessuno ha l'ardire e la sincerità il coraggio di rispolverare la plebe, fornaiola (talvolta forcaiola) e circense, che forse sarebbe il termine più adatto al contesto attuale di innamoramenti e passioni collettive e indiscriminate, alle quali si chiede solo di essere ricche di brioches ed eroi appunto circensi.
Ma non lamentiamoci: la scolaresca che per il proprio bene deve sempre apprendere; il branco pronto alla violenza; il coro che può soltanto accompagnare il solista; la clientela del Magnifico di turno; Diociscampi la gang; il gregge silente che solo all'ultimo si fa sentire mentre lo stanno già sgozzando; l'esercito e la truppa che del gregge risulta parente; il clero che a molti non va proprio bene; la comitiva troppo vacanziera seppure rilassante; la banda che ben pochi interpreterebbero come armonioso ensemble di musicanti; la costellazione di cui ahimè siamo davvero poco degni. E' davvero difficile trovare una parola giusta e dignitosa, una via di fuga ragionevole.

Che c'entra tutto ciò in un blog sul cammino? Per un  breve attimo ho voluto pensare che il cammino, ahimè messo a repentaglio dai malanni di stagione, le cui hanno allucinazioni sono all'origine del post, possa grazie al vento sul viso portare via le incrostazioni tossiche che la vita giorno dopo giorno deposita su di noi. Ma riflettendo ho capito che troppi giorni e troppi Kilometri ci vorrebbero per un lifting del genere. Ce ne staremo buoni ad aspettare altro vento, altri giorni e altri Kilometri, prendendo il buono che si può avere.

(Riguardando il titolo, mi accorgo dell'ennesimo riferimento collettivo, con "involgarimento". Evidentemente è un segno dei tempi)

giovedì 19 ottobre 2017

Imboscati

Non sono soltanto in caserma. Questa volta risparmio le prediche e mi limito a presentare due immagini, che raccontano al meglio i cambiamenti avvenuti e in corso sui nostri monti.
Il luogo è Maiada (1050 m.), sulle pendici sud-est dell'omonimo monte nell'alta Val Trebbia. La cima del monte (1095 m.) è raggiungibile molto rapidamente dalla strada per Rondanina nei pressi della Cappella di S. Anna e ha dei bellissimi prati che si aprono su un panorama molto esteso. Poco sotto c'è la frazione Giardino il cui nome è rivelatore.
Ma ciò che ora mi interessa è mostrare due foto di Maiada. La prima pubblicata sulla guida Valtrebbia e Valdaveto, di G.F. Scognamiglio e G. Macellari, 1970, si può collocare fra il 1965 e il 1970; la frazione già allora era abbandonata ma non ancora sepolta. La seconda è stata scattata il 18 ottobre 2017. 


(Il bivio sulla SP 15 che porta a Maiada: https://goo.gl/maps/c8RyrZcJELH2)

Per recuperare una parte della desolazione che possono dare queste immagini ne inserisco anche una del panorama dalla cima del monte soprastante.


domenica 15 ottobre 2017

Sentieri nel bosco, strade fra i prati?

Ritorno sul tema della strada asfaltata, di cui ho già scritto ("Strade e sentieri").

Molti ripudiano il percorso su strada, non solo per motivi di sicurezza o funzionali (meno inquinamento, fondo più adatto, miglior contatto con la natura), ma a volte si direbbe per una sorta di purismo itinerario che sembra partire da valutazioni di principio e automaticamente declassa l'asfalto. Non voglio certo obiettare sulla sicurezza, ma mi pare che si generalizzi troppo. C'è strada e strada (asfaltata). Basta cercare.


E ci sono giorni per andare e altri per non andare: in molti casi solo la domenica è a rischio.

Inoltre occorre distinguere che cosa ci si aspetta dal proprio gesto di camminare. Se si cerca la "natura incontaminata", nella maggior parte dei luoghi e dei casi tanto vale comperarsi un buon maxi TV 4K e cercare fra i canali del digitale terrestre.
Plitvice
(Un esempio di immagine offerta da Wikipedia quando si digita "natura incontaminata - immagini", il Parco di Plitvice, -visitato annualmente da circa 1.3 milioni di turisti!-).

Se invece si cerca il paesaggio della nostra tradizione e si riflette che il paesaggio tradizionale è proprio una affascinante contaminazione di ambiente naturale ed ambiente umano basta portarsi ai margini della città e iniziare a camminare.

Ma camminare dove? Paradossalmente il sentiero, abbandonato e spesso ruscellato dalle piogge, ci porta in un paesaggio nuovo e forse impensato soltanto pochi decenni fa, bosco bosco e ancora bosco, non ancora fustaia e non più coltivo, inselvatichito e senza governo. Affascinante e struggente, ma è proprio quello che tanti si aspettano?

Molto diverso dal paesaggio rurale ligure tradizionale fatto di case, spesso povere ma orgogliose di dominare il proprio terreno, orti, prati, coltivi, poi il castagneto e infine il bosco da legna. Occhi verdi che si aprivano nella selva originaria, la addomesticavano e creavano quelle vedute di "villa" o cascina che tradizionalmente ci aspettiamo.


Certo, i pochi casi affrancati dalla servitù della strada in cui questo si può ancora vedere -spesso a scadenza, in attesa che il tetto crolli e che il bosco si reimpossessi delle fasce e degli orti abbandonati- hanno un fascino straordinario, come i valichi dove ancora non arriva la strada ma soltanto la mulattiera,, ma sono appunto eccezioni da apprezzare senza guastarne il silenzio fuori dal tempo, silenzio di un sonno che presto è destinato a diventare definitivo, per quanto può valere questa parola.


Il più delle volte troviamo il paesaggio che andiamo cercando non lungo i sentieri, dove ormai le radure stanno scomparendo,  ma lungo le strade. Ma ad alcune condizioni.

Innanzitutto dobbiamo fare lo sforzo di andarci non di domenica, e già questo ci dovrebbe far riflettere. Perché proprio la domenica è il giorno in cui frotte di traditi dalla città si muovono in automobile a  cercare bella natura e campagna in qualche trattoria e posteggiano dove capita a bordo strada. Oppure, più rusticamente organizzano succulente grigliate, sempre a bordo strada, in postazioni barbecue che nei giorni comandati da tradizione devono essere conquistate quasi all'alba. Grigliate allietate da musiche ad alto volume e dalla seduta facilitata da tavolini e sedili da campeggio. Dove i bambini, che in quei giorni topici sono finalmente liberi dall'impegno calcistico domenicale, possono giocare a calcio in tutta libertà.

Risultati immagini per barbecue sui prati

A queste condizioni, neppure il più fascinoso dei paesaggi esotici resisterebbe, figuriamoci una meta domenicale. Quindi dobbiamo sospendere il giudizio e cercare di ritornare il lunedì.

Negli altri giorni infatti anche lungo una strada asfaltata siamo sicuri di gustare prati e aperti panorami.


Anzi, soprattutto lungo una strada, proprio perché altrove il bosco ormai la fa da padrone. Quindi non formalizziamoci troppo e cerchiamo anche di manifestare apprezzamento a coloro che non si sono intruppati in città e mantengono a costo per noi zero un paesaggio e una bellezza che altrimenti si perderebbero. Ricordandoci che la strada è accettabile e siamo eventualemente noi dei sozzoni se ne facciamo uno sfregio alla terra e una discarica.

Senza dimenticare l'inquinamento acustico: una strada asfaltata nel verde dei prati e quasi sempre nel silenzio la vince rispetto a un sentiero pure più bello ma sfregiato dalla sottostante autostrada, magari invisibile ma purtroppo ben udibile, notte e giorno. Anche se non è possibile inserire un link audio e bisogna andare sulla fiducia.

domenica 9 luglio 2017

Un mondo a misura d'uomo, cioè di me stesso medesimo!

Certo è in parte inevitabile quando si osservano le cose, ma troppo spesso ci si mette al centro dello spazio e del tempo anche quando si passa alla loro comprensione e interpretazione: un modo di vedere che porta fuori strada, ovvero non porta proprio da nessuna parte.

Andiamo per monti e diciamo: è un mondo morto, senza renderci conto che ad essere morto è il mondo che noi associamo ad essi e che li ha rappresentati in un periodo storico preciso e definito, a termine. Ci portiamo addosso un atteggiamento supponente da "fine della storia", quando ciò che è finito è solo il mondo che conosciamo o di cui abbiamo letto. Oppure, più pessimisticamente, è la "nostra" storia che volge verso il tramonto.

Pensavamo a un mondo silenzioso (come le vipere timore della giovinezza) e senza vita e mentre noi pensavamo si sono insediati cinghiali daini lupi e caprioli. Non consideriamo gli uccelli perché siamo poco abituati a guardare in alto.
Forse consideravamo, con un po' di sufficienza, l'entroterra poco adatto ai ritmi della vita moderna e sempre più giovani riscoprono questo entroterra e i suoi ritmi, trasformando le velleità della generazione precedente in un progetto di vita; speriamo bene, però, che la velleità sia davvero ridotta.
Deprecavamo la scomparsa delle specie e varietà dell'agricoltura tradizionale e delle persone coraggiose, non necessariamente romantiche, sono ritornate ad esse e le fanno rivivere.
Ogni luogo era raggiungibile dalla strada asfaltata (troppe strade e talvolta inutili, brontolavamo e talvolta a ragione) e i pendii si sono messi gentilmente in moto offrendosi di portare giù tutto nei torrenti, mentre si inizia a pensare di chiudere qualche strada perché mancano i soldi per la manutenzione.
Camminavamo su sentieri deserti e orecchiando Caproni e il suo amico della Moglia ci chiedevamo dove erano finiti tutti  ed ora incontriamo bikers, cavalli e asini, anche moto. Troppa grazia Sant'Antonio! Forse dovremmo però chiederci dove sono finiti i sentieri.

Qualunque esso sia, ci sarà un futuro per il nostro entroterra, anche se noi non sappiamo prevederlo e ahimè neppure orientarlo perché spesso si spendono soldi come se tutto fosse statico oppure, peggio, come se quei soldi fossero dovuti agli amici che si conoscono e non ai protagonisti di un domani che non si è in grado di riconoscere.

Vedremo. Speriamo bene per i nostri cari monti e per i sentieri. Che qualcuno si chiede se saranno ancora matrici di un nuovo ciclo della vita dell'uomo del mondo, dopo il primo iniziato nella preistoria e culminato nella pax romana e dopo il secondo iniziato nell'Alto Medioevo e forse crollato con la crisi della modernità (Matteo Ottonello, Convegno "il Mare in basso", 1997).

Chissà. Certo sarà un vero peccato non poter controllare di persona. O magari e di nuovo: chissà ...

Ricerca di essenzialità

Andiamo per gradi e partiamo dal titolo del blog. Poi vediamo se si riesce ad essere più di sostanza. Da oggi "Per consumare scarpe e scarponi" diventa "Scarpe e scarponi".

lunedì 3 luglio 2017

Un mondo scomparso

Ho girato anni per monti e mentre guardavo le fasce incolte, le case diroccate, i boschi abbandonati pensavo a chi viveva in quei monti faticando e creando un mondo, un paesaggio fisico e sociale che indovinavo ma sapevo ormai scomparso. Fasce, case e boschi rimanevano come le quinte di uno spettacolo non più ripreso in un teatro abbandonato.
L'ho fatto per anni.
L'ho fatto per decenni.
Fra poco arriverò al cinquantennio.
Adesso, guardando chi passa sui sentieri in bicicletta, in moto, a cavallo, northerly walking molto elegantemente o correndo a rotta di collo (che invidia per i corridori!), mi chiedo se per caso anche io pedestre camminatore d'antico stampo non faccio parte di un altro mondo, quelli che partivano alle 5 di mattina e arrivavano alla base in treno o in autobus e neppure immaginavano i sofisticati prodotti e i materiali tecnici che ora abbiamo comperato. Sarò forse diventato anche l'ombra sbiadita di un mondo scomparso?

Domani rinnoverò gli scarponi in Goretex che non ne possono più e magari prenderò una maglietta tecnica rosso fuoco ad asciugatura lampo. Giusto per esorcizzare il problema e non passare inosservato come un fantasma sulla quinta del paesaggio montano. Non vorrei che nascesse la leggenda dell'Escursionista errante, condannato a camminare per sempre su sentieri deserti per non aver riconosciuto e accolto degnamente la modernità. Che diamine! Sono più di trentanni che ho la giacca in Goretex e non esco se non ho il GPS in tasca. Ma magari vedendo un vecchio con la barba bianca la gente chissà cosa pensa, non ci crede. Meglio chiarire.

Ricordi e realtà

Quando si torna in un luogo (putacaso, l'Antola) in cui non si vive e che non si visita molto spesso ma si conosce sin da quando si era ragazzi, è quasi inevitabile ritornare con il ricordo alle prime volte che ci si andava, quelle che hanno creato l' "imprinting" con cui lo si vede. Tutto ciò è in genere motivo di malinconia, e anche una mancanza di riguardo alle persone con cui ci si ritorna e che allora non c'erano. Ma tant'è non se ne può fare a meno, per l'affezione dei ricordi e per una tendenza, presente anche nelle persone più obiettive, a crearsi una età dell'oro, in genere favolistica quanto quella del mito.
Oltre una certa età tutto ciò può diventare dannoso perché in genere il ricordo ri-ricreato e angelicato per strati successivi, oltre ad essere talvolta finto ci rende orbi alle bellezze del presente. Meglio fermarsi, allora e magari cercare altre mete? Tagliare la testa al toro del presente e limitarsi a quella dell'angelo che sorge dalla memoria? Forse, se il peso del ricordo soverchia la visione di oggi, ma meglio sarebbe saper continuare a guardare senza troppo fardello.
Certo che se tutto diventa lo specchio del ricordo, è opportuno allora limitarsi ad esso (il ricordo) ed evitare confronti che il più delle volte sono impietosi per noi e per ciò che ci sta davanti.
Ma quando ciò succederà saremo davvero vecchi e potremmo anche rinchiuderci in un giardino murato o addirittura in una ben fornita stanza studio. Sarebbe una scelta quasi irreversibile, che è opportuno rinviare più che si può.
Meglio l'imperfezione del presente che la (falsa?) perfezione di un passato ricordato e ricreato a memoria.

sabato 10 giugno 2017

La mente e il braccio

Si tratta di un’immagine che se applicata alla singola persona appare appropriata e salva tante braccia da incidenti, pur se la mente che si assenta anche per poco causa gravi e talvolta irrimediabili danni.
Ma in organizzazioni complesse può essere fonte di ingiustizie, perché spesso diventa la mente e la mano.
La mente che progetta e organizza, la mano che scrive e racconta, con buona pace del braccio che ha lavorato e troppo spesso viene dimenticato nella narrazione delle cose trasmessa ai posteri, in tal modo resi ignari. I più accorti di essi si regalano il beneficio del dubbio, ma molti, troppi, ne traggono indebite e dannose certezze.

Che c’entra questo con l’atto di camminare? C’entra, c’entra: si passa, si vede, si guarda, poi si legge, ci si informa e si rimane fregati.
Ma la scelta di che cosa raccontare vale per tutto, non è solo una questione storiografica (il problema del fatto storico).

mercoledì 19 aprile 2017

Guardare il tempo che passa

(dal "Fondo antico dei quaderni", luglio 2005)

La prima volta che ho sentito questa espressione era detta con un certo disprezzo, come uno che perde il tempo a guardarsi l’ombelico.
Ma la frase mi è subito piaciuta, come espressione della capacità di mettersi in sintonia con la natura e il mondo. Capacità che è una preziosa fonte di equilibrio. Riflettendoci ne è venuta fuori una vera e propria metodica di vita, un “protocollo” che sarebbe affascinante tradurre in realtà.

Ritirarsi in un posto fuori città, bello ma anche non bellissimo per non cadere nell’oleografia, purché abbastanza naturale da poter offrire una visione del tempo e delle stagioni. Farlo al solstizio d’inverno e stare là per almeno un anno e un giorno, in modo da poter osservare un ciclo della natura. Partire proprio all’inizio dell’inverno perché in quei giorni la vita è sommessa e anche se non sei molto bravo riesci a cogliere i segni che ti vengono offerti.
E perché è meglio passare dal silenzio alla vita e poi ritornare piano piano, dopo l’esplosione della primavera e l’ardore dell’estate, di nuovo alla quiete e al silenzio. Come una metafora della vita.

Non fare nulla se non il necessario per sostentarsi. E soltanto guardare la vita che procede, si sviluppa, giunge al culmine e torna a racchiudersi in sé stessa.
Cogliere tutti i segni più celati, quelli che il mondo ci nasconde e di solito neppure riusciamo a vedere. Solo guardare e cercare di diventare parte del tutto.

Un anno sabbatico vero, un anno nel mondo parallelo che vive accanto a noi e non sappiamo mai guardare.

Mettendo assieme tutte le quotidiane visioni ne verrebbe fuori un time lapse (va di moda dire così) che ricreerebbe il mondo. In fondo, il processo speculare a quello dei grandi viaggiatori, che sempre si muovono e ricreano il mondo facendo una sommatoria nello spazio invece che nel tempo, ma (quella dei viaggiatori) con molto più rumore di fondo.

Certo guardare il mondo con intenzione e con attenzione richiede una metodica per cogliere i segni del cambiamento e continuità di osservazione. Ma credo che ne varrebbe la pena.


Però il mondo esiste anche se non lo osserviamo (almeno a livello macroscopico c’è da giurarci) e allora certo esce il grillo parlante che ti fa l’obiezione: “E di notte?”. Niente paura, ci siamo attrezzati anche per questo e tappiamo la bocca ai saccenti. Basta che il proprio ciclo circadiano non sia di 24 ore, ma qualcosa di più. Per esempio circa tre quarti d’ora al giorno. In questo modo le ore di veglia si spostano ogni giorno e in un mese circa si ritorna da capo. Provare per credere. Del resto la Luna lo fa da miliardi di anni: funziona sempre e lei appare ammirevolmente serena e pacificata.

In tal modo si vivrebbe un ragionevole numero di ore notturne, sufficienti a conoscere anche questa parte del tempo. 

La giornata breve.

Solo poco fa camminavo nella luce del mattino, ma ora vado verso la sera, vedo le ombre allungarsi. Mi lascio distrarre troppo facilmente, sempre.

sabato 25 marzo 2017

Orti genovesi

(dal "Fondo antico dei quaderni", 1)

L’amore per la madre terra –anche se è magra e pietrosa- è una ispirazione congenita e così anche chi vive sul mare non rinuncia alla consolazione di un orto …. " (Giannetto Beniscelli, in Gente e volti di Liguria, 1974)

“ … et ciascheduno colle sue mulette a ora di desinare et di cena se ne vanno a’ giardini e poi tornano nella città alle lor mercanzie”. (Giovanni Ridolfi, 1480, citato in Massimo Quaini, Per la storia del paesaggio agrario in Liguria, 1973)

venerdì 24 marzo 2017

Trekking (mi rassegno a questa parola) di interfaccia




Genova offre la straordinaria opportunità di camminare in città e al tempo stesso esserne fuori, in un ambiente naturale o antropizzato ma tuttora rurale e seminaturale. E’ un dono che la natura le ha fatto e che compensa abbondantemente, se lo si sa valorizzare, la scomodità di vivere in una città stretta e sacrificata fra mare e monti, costretti a soluzioni urbane oggettivamente impegnative.

Oggi l’Unione Europea giustamente stigmatizza il consumo di spazio e propone la (ri)scoperta della città compatta, per combattere il fenomeno che gli urbanisti e gli addetti chiamano urban sprawl, ovvero lo “spaparanzamento urbano”. Noi -e i nostri ospiti turisti, non dimentichiamolo!- la città compatta ce la troviamo in dono. E’ quindi saggio imparare ad apprezzarla e utilizzarla come si conviene, visto che in ogni caso dobbiamo subire e possiamo soltanto mitigare le scomodità e i fatti anche drammatici che questa condizione comporta.

Camminando con attenzione nell’ambito urbano e periurbano di Genova si riesce sempre a leggere la morfologia originaria (la pianta 0 di Genova del De Barbieri) e questo permette di capire meglio la città e i suoi condizionamenti nel corso dei secoli. Se poi si esce soltanto di poco dall’ambito urbano si trovano bellissime testimonianze dell’ambiente naturale e del paesaggio tradizionale. Non a caso una mostra organizzata circa 30 anni fa, “Ecologia in città”, aveva individuato degli straordinari percorsi alla ricerca della natura anche laddove non siamo abituati a vederla o a cercarla.

Oggi si parla di trekking e di trekking urbano. Qui abbiamo la fortuna di trovare possibile l’uno e l’altro, compenetrati fra di loro, ed è per questo motivo che mi piace definire tutto ciò come un “trekking di interfaccia”, fra ambiente naturale ed urbano, una grande opportunità per la nostra città e anche uno strumento per la consapevolezza dei cittadini e per aiutarli, fra tante altre cose, a contribuire a una pianificazione partecipata. Possibilità che nasce anche dalla conoscenza raggiunta grazie al fatto di camminare in città e di osservarla con attenzione.

venerdì 17 marzo 2017

Strade e sentieri

Da anni non tollero la parola incontaminato usata a sproposito per parlare di luoghi dove magari generazioni di uomini e donne si sono spaccate la schiena. Una qualifica favolistica e buonista quanto falsa.
Adesso mi rendo conto che essa talvolta riflette anche il modo lezioso con cui spesso si osserva il paesaggio come un fenomeno puramente estetico. Un modo ormai messo al bando dagli studiosi ma spesso praticato, affine a quello con cui si considerano i figli un'opera d'arte applicata, i cani un accessorio di abbigliamento etc.
In questa visione estetica rimaniamo in noi stessi e ci mettiamo alla finestra a guardare, e valutiamo, giudici autoconvocati di una gara che non esiste.
Meglio invece porsi il problema da un punto di vista etico, cercando di uscire da noi stessi ed entrando nell'altro, fatto, persona o paesaggio che sia, cercando di osservare e capire e soltanto dopo giudicare se ci piace o no.
E' forse per questo che tanto mi piace anche camminare sulle strade asfaltate, per quanto possa amare i sentieri. Camminando su un sentiero camminiamo il più delle volte nel passato; camminando su una strada asfaltata, per quanto remota ed azzardata essa sia, camminiamo nel presente, con le mamme che accompagnano i bambini a scuola, i tecnici dell'acquedotto o del gas che si recano nelle frazioni, i pensionati che si tagliano un po' di legna a bordo strada e tutto il resto che si può trovare.

E' un modo più proficuo per capire il mondo. Paradossalmente il sentiero, oggi solo degli escursionisti e dei bikers, ci dà una visione forse un po' artificiosa della realtà.
Ma quello dell'asfalto nemico degli scarponi è un tema che merita un discorso più lungo.







































Alle prese con l'incontinenza geomorfologica

Il garderello (così impeccabilmente chiamò il guardrail un signore che in Lunigiana ci insegnava come meglio arrivare da Pracchiola a Pontremoli dopo la discesa da Frattamara) ferma le auto, ma quando a spingere è il monte non può far altro che adattarsi e all'occorrenza prostrarsi a terra in segno di sottomissione al proprio (Pen)Dio.





Più ardite e orgogliose le reti paramassi si oppongono a rocce e sassi. Ma fino a quando? E quanto costerà mantenerle intatte in una forse sacrilega giovinezza?



lunedì 6 marzo 2017

Dentro e fuori, da tutto e da tutti

Riporto un breve stralcio da un piccolo, denso e molto bello libriccino Di Giuliano Stacchini "I monti minori - Cronaca di altre montagne" (Luna Editore, 1993). In poche parole Stacchini bene esprime come Genova sia una città "anomala" e per questo affascinante e fonte di scoperte. Viene evidenziato il rapporto fra la città e il suo circostante ambiente, che è in fondo la ragione prima di questo blog, l'essere fuori e al tempo stesso dentro rispetto al mondo di oggi.


Due giorni nel precoce inverno (Dintorni di Genova e Genova stessa)

... ... ... 

Oggi il freddo é diminuito, ma piove ancora, scrosci si alternano ad un'acqua sottile che penetra le ossa. Ore 8 a Molassana, e pare notte: gli studenti si muovono nelle strade scure, li illumina Ia luce dei bar.
E’  straordinario che il sentiero nasca qui, tra i palazzi, i negozi. il gran traffico. Si apparta però subito nelle scalinate rosse, pochi minuti e si fa via nel bosco.
Mezz'ora dopo siamo nel silenzio assoluto, i Piani di Creto sono innevati, finalmente spiove. Da Creto, che ha sullo sfondo l'Alpesisa bianca di neve, cerchiamo una via inedita di ritorno. Ci porterà alla Croce di Struppa, e poi alla Pieve di San Siro e alla vecchia "ostàia", dove cambiamo gli abiti e ci ristoriamo. (Novembre 1985)



venerdì 17 febbraio 2017

Toponomastica e territorio

Il territorio - che a mio giudizio esiste in quanto “visto” dall'uomo - esprime il complesso delle relazioni fra l’uomo, individuo o società, e il mondo circostante ed è quindi per definizione una realtà “lavorata” e utilizzata. Esso nasce dall'azione dell'uomo, che partendo dal mondo preesistente lo crea secondo una struttura congruente con le proprie necessità. Ciò implica che il territorio è in continua evoluzione e quindi bisogna osservarlo con la capacità di vederlo non solo come è adesso ma anche nella sua evoluzione.

Questo è possibile con l’individuazione e l'interpretazione dei segni che, oggi, indicano il territorio di ieri e la  toponomastica è uno dei più efficaci strumenti per osservare e capirne l'evoluzione. Infatti i nomi cambiano molto più lentamente degli altri segni dell'uomo e rimangono a memoria di linguaggi, tradizioni, leggende e popoli ben dopo che la loro origine si è confusa nel fiume delle cose. Si pensi, fra i tanti esempi possibili, ai nomi comuni che dopo aver indicato classi di oggetti diventano propri e fanno scoprire toponimi uguali a centinaia di chilometri di distanza, in contesti ormai diversi e apparentemente irriducibili a una matrice comune.

La minaccia è oggi quella dell’omologazione culturale: per i toponimi essa si concretizza nella scomparsa delle parlate locali come strumento di comunicazione quotidiana e nella forzata e talvolta impossibile traduzione nella lingua nazionale. Inoltre la scomparsa di un insediamento rurale diffuso e legato al suo contesto territoriale riduce molto la necessità di una toponomastica dettagliata e impoverisce l'articolazione toponomastica del territorio stesso.

Diventa allora fondamentale recuperare i toponimi così come sono davvero, salvando un patrimonio che già da lungo tempo la cartografia e l'iconografia tradizionale hanno bistrattato e forzato, storpiandolo nella camicia di forza della lingua italiana. Il tempo a disposizione è poco e scadrà con l’ultimo dei liguri che parlano italiano (fra pochi anni avremo soltanto degli italiani che magari parlano anche il ligure).

Sarebbe compito di una consapevole Amministrazione difendere il patrimonio linguistico delle genti che abitano il suo territorio. La perdita della lingua è infatti la perdita dell’identità, è la rinuncia al proprio patrimonio di sapori, di tradizioni, di canti: un inconsapevole annullamento nella società della televisione e della lingua italiana "a pollici multimediali".

Salvare i nomi dei luoghi è un primo intervento di emergenza: si tratta di fissare il patrimonio linguistico nella sua parte più antica e a rischio di estinzione. In altre parole è un intervento di salvaguardia di un bene culturale prezioso e non rigenerabile. Il recupero evita che vada perduto uno dei principati strumenti per la lettura storica del territorio e per la conservazione della memoria di coloro che ci hanno preceduti.


domenica 12 febbraio 2017

Borzoli

Ho un debole per Borzoli e quindi le dedico un post, sperando che buona parte dei problemi di trasporto di cui si parla siano davvero in via di risoluzione.

Borzoli, che nonostante l’urbanizzazione intensa dell’ultimo secolo conserva ancora parte dei suoi caratteri rurali, è un centro molto antico. Senza tornare indietro sino agli antichi Liguri, di cui peraltro fu insediamento (dei Viturii), già in epoca romana era punto importante lungo la via Emilia Scauri, la quale per andare a ponente doveva risalire un tratto della valle della Polcevera il cui letto era troppo largo per essere superato alla foce.
Inoltre da Borzoli due collegamenti portavano al di là dell’Appennino: uno si collegava alla via Postumia a Pontedecimo, per proseguire verso i Giovi; l’altro risaliva direttamente al crinale di Lencisa, presso Il Santuario della Guardia per andare poi verso le Capanne di Marcarolo e il Piemonte.

Questa antica importanza territoriale ne motivò anche una storia di Comune autonomo (tale era già nel 1177) a cavallo fra la costa a est di Sestri Ponente -dove per breve tratto arrivava all’arenile presso la Badia di S.Andrea– e la val Polcevera. Un Comune la cui vita ruotava attorno alla chiesa di S. Stefano, allora pieve, probabilmente già esistente prima del volgere del millennio ma citata per la prima volta nel 1143 sul Registro Arcivescovile delle decime. La Pieve di Santo Stefano ebbe giurisdizione su Coronata, Fegino, S. Giovanni Battista e tutto il territorio di Sestri fino al 1838, data del trasferimento della sede vicariale a S.M. Assunta di Sestri.
La chiesa fu ricostruita verso la metà del Seicento e restaurata dopo i danni subiti durante la guerra  del 1746-1747, e poi ancora nel XIX secolo.

Nel Quattrocento era già presente a Borzoli un insediamento di villa signorile, che divenne poi diffuso (Rapallo, Spinola, Dellepiane, Cosso, Vaggi e altre famiglie) e mantenuto nel tempo con numerosi e vasti poderi nobiliari ad attività agricola, nella quale era pregiata la produzione vinicola. All’epoca del Giustiniani, alla metà del ‘500, Borzoli contava 110 fuochi, più della adiacente e costiera Cornigliano.

Soltanto nel 1926 Borzoli perse la propria autonomia e venne a far parte della allora costituita Grande Genova; Borzoli fu smembrata fra Sestri e Rivarolo, oggi lo sarebbe fra Municipio V (Valpolcevera) e Municipio VI (Medio Ponente).
All’epoca dell’accorpamento Borzoli aveva quasi 11000 abitanti; ne aveva invece circa 3500 nel 1892, quando era ancora in costruzione la ferrovia Genova-Ovada-Asti, con la nuova stazione, e le strutture ricettive di una Borzoli ancora rurale si limitavano alla “osteria di Antonio Carlevaro”. Con la stazione della ferrovia arrivarono invece alla colla di Borzoli anche il telegrafo, l’ufficio postale e una possibilità di alloggio, oltre alla strada di collegamento con Sestri e Rivarolo (costruita fra il 1888 e il 1890) e a stabili collegamenti di trasporto con queste due località.

Dal confronto fra i numeri degli abitanti nei trent’anni precedenti alla riunione nella Grande Genova appare una forte espansione demografica (ma bisognerebbe verificare gli ambiti di censimento).
Inoltre la conta delle industrie nel 1924 riporta numerose fabbriche: carbone artificiale, laterizi, meccanica, aeronautica, conceria, corderia, conserve, colori, vernici, candele. Infine le cave, che dovevano avere grande importanza economica se, come alcuni sostengono, la lobby dei proprietari era stata così forte da far passare la ferrovia per Ovada in quota proprio a Borzoli per agevolare il trasporto dei materiali estratti.
Ma per la descrizione e la comprensione di ciò che consideriamo oggi essere Borzoli bisogna constatare che si tratta di valori falsati dal cambio dei confini che ci sarà di lì a poco: per esempio le officine aeronautiche, create nel boom Ansaldo nel periodo bellico, erano sulla costa in quella che noi consideriamo Sestri. Lo stesso vale per le officine meccaniche San Giorgio.
Tuttavia anche sulla collina di Borzoli c’erano opifici, anche più antichi di quelli legati all’espansione Ansaldo. Infatti è proprio quasi alla sella di Borzoli, sul versante polceverasco, che si trovava il complesso per le produzione di energia creato dal “signor Dellepiane” nei primi decenni dell’Ottocento. Tale complesso sfruttava l’energia di caduta dell’acqua immagazzinata in ben quattro bacini (del Pilone, Figoi, Galano Superiore e Inferiore, sui rivi Burlo e Galano) per complessivi 137000m3 stimati, con dighe di altezza circa 20m, tranne una da 6m e una superficie totale alla quota di invaso di circa 18000m2. Per l’epoca si trattava di un’opera di ingegneria molto significativa e ancora lo sarebbe oggi per la complessità della sua articolazione: i 4 bacini erano collegati fra loro da galleria, tubazione, un pozzo e un tratto sifonato e potevano alimentare ben 43 ruote idrauliche che alimentavano 20 mulini, 2 filature di cotone, 1 tanneniera, 1 fornace; all’occorrenza poi questa riserva poteva anche servire per fornire acqua ad uso irriguo.

Da quanto si è scritto, e da quanto ancora si può osservare nel paesaggio attuale, si comprende quindi che Borzoli sino a non molti decenni, prima della grande espansione urbana e della motorizzazione diffusa, ha rappresentato un buon esempio di equilibrio fra attività agricole, che nel complesso ne caratterizzavano il paesaggio, attività produttive e insediamento, in genere di carattere diffuso.

Oggi l’area di Borzoli è divisa fra l'unità urbanistica di Borzoli Ovest (2391 abitanti al 31 dicembre 2010), e Borzoli Est (2560 abitanti alla stessa data), e oltre alle zone residenziali comprende piccole industrie, aziende artigiane e aziende di distribuzione.
I principali problemi sono legati alle infrastrutture presenti e il carico generato sul territorio dal sistema dei trasporti mina la vivibilità della zona: il problema del transito dei mezzi pesanti diretti alla discarica di Scarpino, pur se appare in via di soluzione, è stato per decenni una croce che ha pesato sulla qualità della vita e sulla stessa sicurezza degli abitanti.




Fonti bibliografiche
1. Ennio Poleggi e Paolo Cevini, Le città nella storia d’Italia – Genova, Editori Laterza Bari, 1981
2. Vie Romane in Liguria, a cura di Rinaldo Luccardini, De Ferrari editore Genova, 2001
3. Paolo Cevini, Beatrice Torre, Architettura e industria. Il caso Ansaldo (1915-1921), Sagep Editrice Genova, 1994
4. Pietro Barozzi, Genova lo sviluppo topografico, Pubblicazioni dell’Istituto di Scienze Geografiche, Brigati, Genova, 1993
5. Arturo Dellepiane, Polcevera Lemme Scrivia Borbera, Itinerari d’arte e di storia, Tolozzi editore Genova, 1967
6. PUC del Comune di Genova, http://puc.comune.genova.it , visitato il 17-12-2013
7. http://www.progettodighe.it/main/IMG/pdf/genovaborzoli.pdf, visitato il 17-12-2013
8. Tomaso Pastorino, Dizionario delle strade di Genova, ristampa aggiornata e ampliata del 1968, Tolozzi Editore Genova
9. Giovanni Dellepiane, Guida per escursioni nell'Appennino ligure e nelle sue adiacenze, a cura della Sezione Ligure del Club Alpino Italiano, 1892
10. Giovanni Dellepiane, Guida per escursioni negli Appennini e nelle Alpi Liguri, a cura della Sezione Ligure del Club Alpino Italiano, 1896
11. Giovanni Dellepiane; Guida per escursioni nelle Alpi negli Appennini liguri, quinta edizione a cura della Sezione Ligure del Club Alpino Italiano, 1924.

lunedì 6 febbraio 2017

Leggermente fuori posto

L’inverno ha girato la boa e in questi giorni di pioggia e nuvole vaganti abbandona le pretese di gloria delle scorse settimane, quando il cielo pulito e in terra il letto di foglie, mobili per il vento forte e scroscianti per la lunga siccità, splendevano nelle luce folgorante del sole basso.
Tutte le foglie sono i cadute e dopo di esse anche il loro colore è morto; il bosco è spoglio e i pendii scoperti come mai negli altri periodi dell’anno. I tronchi sono soltanto stecchi neri, il letto di foglie è marrone marcio e persino il grigio delle nebbia che si muove, nasce e muore nei valloni serve a dare un po’ di luce e vita.
E’ la stagione più morta dell’anno. Morta e sepolta.

Dalla veranda ben riscaldata della trattoria si vede il pendio di fronte. Ha ripreso a piovere e la nebbia si è alzata lasciando la valle nuda: tutto il mondo è nudo.
Non posso fare a meno di pensare che chi viveva nei monti doveva avere come primo pensiero quello coprire questa nudità, uccidere il freddo e togliersi di dosso la sua mortale umidità. Scogli in mare che aspettavano che passasse il freddo e ritornasse la luce per riprendere la loro vita sospesa.

Liberati dal freddo, sollevati dalla fame, beneficati dalla luce accesa e spenta a nostro piacimento, dimentichiamo che nulla è dovuto e nulla è comunque garantito.
Ma più che a noi continuo a pensare a loro e alle loro case, fatte solo di muri, tetto e un focolare. Senza punti luce da regolare a volontà. Senza caldo diffuso appena si passa la soglia di casa. Senza acqua se non quella del secchio riempito alla fonte. Senza gabinetto! Con pochi ed essenziali mobili o incavi nel muro, e d'altronde con così poca roba da metterci dentro che erano più che sufficienti. Senza cibo se non quello che si poteva conservare dopo averlo preparato, non comperato, e qualche volta anche senza quello. Senza la possibilità di aprire ogni volta che si vuole un armadio per cercare un capo pulito o più caldo oppure lo sportello dei medicinali se c’è qualcosa che non va e poi la mattina successiva chiamare il medico di famiglia. Senza poter risolvere le emergenze con una telefonata e con le distanze misurate solo dai propri passi. Con la fatica per le braccia e non per le macchine.
In breve tutta la vita come il più scomodo dei bivacchi che possiamo aver sperimentato.


Poi penso anche a me che stasera non ho la connessione internet e ai problemi che questo mi crea: forse la mia ricerca di essenzialità deve fare ancora molti passi prima di potermi considerare soddisfatto.

Mi solleva però il fatto che non do per dovuto tutto ciò che ho e che quando sono in trattoria riesco a vedere non solo dentro, ma -leggermente asociale e come sempre leggermente fuori posto- anche fuori, verso il pendio di fronte.  

sabato 4 febbraio 2017

Salendo, scendendo

Un blog come questo sarebbe meno proponibile in una città che non sia Genova, soprattutto perché Genova è una città verticale, poi e in minor grado perché Genova sta di fronte al mare.

La pendenza di Genova e della Liguria rendono l’insediamento umano frammentato, spesso quasi episodico, e lasciano molti spazi o interstizi che non sono naturali, ma tuttavia appartengono a una ruralità che ha saputo colloquiare con la natura, addomesticarla senza domarla. Oggi troppo spesso si vuole dominare la natura, e in questa maniera ci si espone a un sicuro fallimento. Mentre buon senso e storia dimostrano che il modo vincente è conformarsi ad essa, chiedendo quanto può dare, anche il massimo, ma non di più. Appunto, addomesticarla.

Camminare in città e ancor di più attorno ad essa e individuare i fili (dei canapi in realtà tanto sono forti e tenaci, e quando si va al conflitto persino dei cavi di acciaio come quelli che tentano di imbragare rocce e pendii) che la legano all’ambiente circostante è una vera e propria e non banale scoperta di avventura geografica e storica, che mi ha portato a creare l’espressione “trekking di interfaccia”, tanto per adeguarmi anch’io questo termine insensato che dice poco e lo dice male -ci ritornerò- ma mi allinea disciplinatamente al trend (!!) dominante.

Ma è interessante il concetto di interfaccia che cerca di esprimere proprio il rapporto fra città di oggi e storia di sempre. Una interfaccia che appunto a Genova, grazie alla verticalità e al mare, cambia repentinamente e permette le scoperte che trasformano una camminata in una avventura.

martedì 31 gennaio 2017

Rimescolamenti temporali

I post precedenti sono stati rimescolati e si può essere perso il collegamento fra il loro contenuto e la (apparente) data di pubblicazione. Ma chi legge sa farlo a modo debito.

Il trenino di De Ferrari

Parliamo della nostra metropolitana per dire sempre che è la più corta del mondo etc. Se prendessimo atto della sua minuscolezza e la chiamassimo "Trenino di De Ferrari"? Così ridimensionata potrebbe diventarci forse simpatica e a quel punto anche noi saremmo meglio disposti a riconoscerle l'utilità del ruolo che dignitosamente ricopre, nonostante che ce la concedano con molta parsimonia, di orari, e nonostante che lei sia costretta a mostrarcisi deturpata da orrendi tatuaggi.
Forse è anche una questione di genere: al femminile subisce vigliacche violenze -persino lei!- al maschile chissà.

La fine è il mio inizio

Ho iniziato a leggere il libro di Terzani, "La fine è il mio inizio", per caso e perché non avevo nulla di più promettente per le mani. Si è rivelata una scelta molto felice, è un bel testo che avvince e fa pensare. Malinconico e struggente, ma sereno e persino felice.
Perché esso si collega a questo blog? Perché camminando per strada ho la sensazione che molti non siano coscienti del luogo in cui si trovano e vivono perché si sentono cittadini del mondo (televisivo), atteggiamento che in genere cade man mano che ci si allontana dal centro. Allo stesso modo leggendo quel libro ho avuto la sensazione che di tutte le cose che esso racconta e che vanno dalla Firenze d'Oltrarno ai più lontani angoli dell'Asia, proprio la Firenze d'anteguerra, con l'orgoglio e la dignità delle sue classi popolari e con la loro signorile povertà, sia il mondo più lontano da quello nostro di oggi.
Con il nostro tradizionale provincialismo ci picchiamo di conoscere il mondo -e lo giudichiamo- ma abbiamo dimenticato ciò che sta dietro il nostro angolo nello spazio e nel tempo.