Don Vasco

Colloquio con don Vasco Cuoghi, 1916, sacerdote, già parroco alla Capraia e a Mongiardino Ligure


La prima cosa che associo oggi alla montagna? Un senso di tristezza a vederla così abbandonata, a vedere tutte quelle terre che una volta sostentavano tanti villaggi e persone e ora sono deserte.

Vado sovente a fare con l’auto dei giretti verso la montagna e non trovo più, su verso le Capanne di Carrega e il Romano, un esercito di mucche come quando ero bambino. Non vedi mai bestie al pascolo. Ecco, la tristezza di vedere quel deserto.




Penso ai paesetti dell’alta Borbera, prima tanto popolosi, che ora non hanno neppure più il prete. Cerendero ha una chiesa che pare una cattedrale, l’avevano tirata su gli uomini del paese. Ora è quasi abbandonata e anche la montagna dietro vien giù. Lo stesso a Gordena. E’ tutto un deserto.

Ma la montagna mi affascina sempre, ora come allora. E’ come un giardino, e la natura va avanti; è uno spettacolo meraviglioso che continua. Le montagne sono i più bei monumenti che Dio ha fatto. E ti danno un meraviglioso senso di libertà.

Di che cosa ci sarebbe bisogno. Di creare delle cooperative: questo si dovrebbe fare e ci sarebbe del lavoro. I giovani scendono giù, vanno in fabbrica e sono rimasti solo gli anziani. Hanno fatto le strade, ma sono servite a far scappare la gente e basta. Bisogna aver lavoro e fiducia, è anche un fatto sociale, non solo di soldi. La cooperativa porta anche vita sociale. Una volta quelle terre nutrivano popolazioni numerose. Ora si è tutto perso. Manca la gioventù.

Il rapporto con la montagna si è un po’ rotto. In città e tutto più facile e c’è il benessere o magari l’illusione del benessere.

C’era un paese tutto abbandonato. Un prete ha messo su delle cooperative e delle famiglie si sono sistemate. Lavorano abbastanza, speriamo che continui.

Mi sono innamorato della montagna da bambino e non l’ho più dimenticata. E’ per quello che sono andato a Mongiardino.

Siamo arrivati a Genova che avevo otto anni. Abitavamo a S. Martino di Struppa. E ho iniziato lì a fare il pastorello di famiglia. Avevo una capra e salivo verso la Gola e l’Alpesisa, oppure passavo la Colla e andavo verso le Tre Fontane, dove c’era il lago. Andavo anche per funghi e qualche volta mi portavo da leggere un romanzetto.

Poi siamo andati a Cavassolo Superiore. Lì andavo con una signora che girava i paesi per vendere merceria e altri oggettini, così ho imparato a conoscere tante cose e persone: andavamo a Marsiglia, nelle Canate e in altri posti.

A Cavassolo c’era gente che commerciava le bestie con la val Trebbia, salivano su con I carri. Hanno sentito che c’era un contadino senza figli che cercava un pastorello per le mucche, così sono andato. Era aprile e ho finito l’anno scolastico là. Ero a Varni sopra Gorreto. Siamo andati a Gorreto con il carro a cavalli, poi sono salito a piedi.

Soltanto a Varni eravamo cinque o sei. Al mattino facevamo scuola, al pomeriggio salivamo verso le Capanne di Carrega con le bestie.  Finite le scuole, stavamo invece fuori tutto il giorno.

Ognuno di noi aveva una dozzina di bestie. Ci divertivamo tutto il giorno, perché le bestie le sentivamo dai campanacci e noi potevamo giocare. Mangiare, ci davano un pezzo di pane e poi noi ci aggiustavamo. Salivamo alla faggeta e facevamo delle scorpacciate di lamponi. Del resto tutti vivevano di prodotti locali, pane fatto in casa, pasta anche, qualcosa dell’orto. Dominava la polenta.




Se veniva il temporale scappavamo e magari cercavamo rifugio in qualche riparo, in qualche grottone.

Se non si andava a piedi il mezzo di trasporto erano gli asinelli. Quando potevo salire su un asinello mi sentivo un imperatore: eravamo veramente felici.

C’erano le fiere dove arrivava molta gente. Alle Capanne di Carrega veniva mezzo mondo e non si poteva circolare dalle persone e dalle bestie che c’erano. Dava veramente il senso della festa. Anche a Fontanarossa c’era un mucchio di gente.

Naturalmente non ci davano nessuna paga, ma non ci pensavamo neppure. I problemi incominciavano quando arrivavo a casa. Il padrone si ubriacava sempre e picchiava la moglie e anche me; aveva una cattiva fama in paese. Io per scansarmi le botte andavo a dormire nel fienile e stavo tranquillo.

Le botte erano troppe e verso la fine dell’estate il prete ha scritto a mio padre raccontandogli come stavano le cose. Così mio padre è venuto a prendermi. Mi ha trovato al pascolo che era verso mezzogiorno. Siamo venuti a Genova a piedi, per Propata, Bavastrelli, Torriglia la Scoffera e poi siamo scesi giù da Capenardo. Siamo arrivati a casa che erano le due di notte.

Poi sono entrato in Seminario.

Alla Capraia, dove sono arrivato in tempo di guerra come primo incarico, ho trovato ancora qualcosa di più che la montagna, perché se salivo avevo l’infinito del mare e lontano la Corsica con I suoi alti monti: la Corsica é un monumento della natura.

A tirare avanti era dura perché dal Continente non arrivava nulla. Per anni abbiamo mangiato conigli selvatici, che prendevo con le trappole. Poi mi hanno regalato un fucile ed é stato tutto più facile. Avevamo anche un po’ d’orto. Pesca poca, avevo una tecnica rudimentale e non bastava certamente per sfamarsi. A un certo punto mi ha preso la mania dell’alveare. Quando vedevo lo sciame lo seguivo e cercavo di scoprire dove si nascondevano. Stavano tutte assieme e non era troppo difficile prenderle, le facevo cadere in un secchio per portarle nelle mie casette.

La Capraia per me era un incanto.
Febbraio 1996

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