lunedì 19 dicembre 2022

E' cambiato il vento

Spaventate dalla tramontana le nuvole hanno iniziato a correre a rotta di collo verso sud, come pecore in fuga dal lupo. Ma lei implacabile le sbrana in pezzi e man mano il cielo si libera. Fra qualche ora nessuno potrà immaginare la strage e tutti saranno felici.



domenica 18 dicembre 2022

Salendo ai Forti da Sampierdarena

Abitavo a Sampierdarena, sulla strada che sale al cimitero della Castagna. Su alcune cartoline in casa c’era ancora scritto “Corso dei Colli” invece che “Corso Andrea Martinetti” e questo dava motivo di qualche soddisfazione per gli adulti, che subito dopo ricordavano con dispiacere proprio quel Luigi Andrea Martinetti che alla strada dava nome, il quale molti anni prima, era venuto in visita a portare il regalo di nozze, una biscottiera di vetro. Molti anni prima: erano forse meno di venti ma per un bambino sono tantissimi. Il fatto che ora vent’anni mi paiano pochi è uno dei motivi di nostalgia e tristezza.

La mia generazione è cresciuta contemporaneamente ai palazzi che venivano seminati sulle colline per soddisfare l’appetito di case di una città che doveva accogliere nuovi cittadini e dare bagno e riscaldamento a quelli che c’erano già; e anche l’appetito dei costruttori di grande e piccola taglia a cui corrispondeva l’astenia di amministratori incapaci o impotenti a regolare ciò che stava avvenendo. Così in poche decine d’anni scomparve un paesaggio di piccoli centri, di orti di villa e di fasce creato nell’arco di secoli. Ma forse era inevitabile che succedesse. La scomparsa dei piccoli centri e delle ville è stata per Genova una perdita davvero grave, era un carattere molto importante.

Ho detto “ville” perché allora per me la villa non era un una residenza o un parco ma un grande appezzamento a fasce, tenuto ad orto e frutteto, dove i “manenti” dei signori coltivavano, o meglio un tempo avevano coltivato, con cura e precisione ogni ben di Dio. E così era per tutti, credo: se uno non aveva sentito una chiamata gli si chiedeva se era andato “in fondo alla villa”, nell’ultima fascia.

Da quella strada cittadina con scalinate o passetti nelle ville si raggiungevano subito le vecchie creuse di crinale e da qui ci si poteva dirigere verso i Forti che stavano sopra Sampiedarena. “Andare sui Forti” non era solo il prototipo della gita, ma pure il modo più breve per passare da un mondo all’altro, dalla Genova degli anni ’50 a un mondo di contadini che allora vedevo eterno e immutabile. In realtà quel mondo precedente era già morto, ma era ancora ben presente nel ricordo degli adulti e quindi, in un certo senso, vivo.

Sui Forti con i miei ci sono andato poco, ero il più piccolo della famiglia e mio padre aveva tirato i remi in barca: non ne aveva più voglia, e persi i contatti con le sue compagnie di gitanti. Così quando succedeva non ero abituato, mi lamentavo e lui diceva che non ero portato, al contrario dell’altra progenie, che però aveva avuto a disposizione genitori più giovani. Un circolo vizioso che non si ruppe mai, ma va bene lo stesso.

Arrivati alla Crocetta dove si incrocia il percorso da Genova verso la Val Polcevera e poi verso nord, nel punto sotto il Forte a cui quella Crocetta dava nome, era d’obbligo ricordare che proprio lì un tempo si trovava l’osteria con ballo del “Caiga”, luogo di scampagnate, balli e feste campestri. Chissà, forse il Caiga (Calzolaio) doveva prendersi cura delle scarpe fruste dei viandanti, i quali nell’attesa danzavano a piedi nudi!

Poco dopo si arrivava al Forte Crocetta, dove c’era anche una porta con arco a controllo della salita. Lì in quegli anni ’50 vivevano i più poveri degli immigrati che arrivavano dal Meridione: è il fenomeno dei “tuguri”, che oggi pare incredibile. Dall’androne del Forte uscivano dei bimbi piccoli con indosso solo una canottiera, non ho idea di come si vivesse lì, certo senza agi. Ma non era un fenomeno isolato: giù al mare c’erano “quelli di Ponte Canepa”, forse un pochino più su nella scala; ce n’erano anche nella mia classe alla scuola elementare.

Passato Forte Crocetta si era a pieno titolo in gita “sui forti”. La mulattiera proseguiva verso Begato e da quelle parti si trovava il Forte Tenaglia, che però si vedeva solo quando si andava al cimitero della Castagna: un altissimo muro con bucature, seminascosto dalla vegetazione. I Maya non andavano di moda, altrimenti li avrebbero associati anche al Forte Tenaglia. Se si stava sul versante Nord si arrivava sotto il Forte Begato e qui si era davvero distanti dalla città. In quella zona si staccava via ai Piani di Fregoso, uno dei primi luoghi di cui ho imparato il nome; mi dava l’idea di un un bel posto di campagna con le osterie, forse per via di quei “Piani”, che prima delle ripide scale verso Forte Begato erano particolarmente invitanti, ma ignorati.

All’epoca Forte Begato era ancora sotto servitù militare, credo una polveriera (codice 21028?). In quell’area si stava attenti, pochi anni prima c’era stato un incidente mortale per una coppietta che si era appartata nel posto sbagliato o forse aveva risposto nel modo sbagliato a qualche altolà. Anche se si fossero conosciuti i dettagli non si raccontavano certo a un bambino. Perché anche di quello si trattava, allora: delle coppiette sui forti. Senza seconda casa o auto l’espressione “andare in camporella” aveva ancora il suo significato originario di coppie che si appartavano per poi ritornare con nonchalance sul sentiero dove passavo con mio padre. Oggi se scrivi al pc “andare in camporella” oltre alla tradizionale definizione ti appare (provare per credere) il tragitto sino a Camporella in provincia di Massa, per me adesso “2 ore 5 min (144,8 km) passando per A12”. Altri tempi, certo.

Allo Sperone forse c’erano ancora i militari, o qualche centro controllo dell’Aeronautica, ma da qualche parte si riusciva a entrare, per uscire poi sul pianoro esterno da dove finalmente si potevano ammirare i 3 Fratelli (in realtà due più il loro Padrino, piuttosto stanco e stravaccato il cima al suo cocuzzoletto) e soprattutto il supremo Diamante, pregiata e ultima meta che con la sua cupola sembrava un osservatorio puntato verso la storia.

Senza GPS, senza carte (c’erano solo quelle IGM ma gli insediamenti militari erano tutti obliterati) né alcun servizio satellitare, senza capi tecnici o tessuti particolarmente performanti, senza particolari ambizioni prestazionali se non quella di arrivare alla meta programmata, senza sapere che si trattava di attività outdoor perché non si conosceva l’inglese, gli escursionisti dell’epoca erano solo delle persone -in genere allegre- che passavano una giornata all’aria aperta. In un certo senso anche loro dei sopravvissuti, abitanti di quel mondo che andavano a ritrovare alla domenica.