lunedì 6 febbraio 2017

Leggermente fuori posto

L’inverno ha girato la boa e in questi giorni di pioggia e nuvole vaganti abbandona le pretese di gloria delle scorse settimane, quando il cielo pulito e in terra il letto di foglie, mobili per il vento forte e scroscianti per la lunga siccità, splendevano nelle luce folgorante del sole basso.
Tutte le foglie sono i cadute e dopo di esse anche il loro colore è morto; il bosco è spoglio e i pendii scoperti come mai negli altri periodi dell’anno. I tronchi sono soltanto stecchi neri, il letto di foglie è marrone marcio e persino il grigio delle nebbia che si muove, nasce e muore nei valloni serve a dare un po’ di luce e vita.
E’ la stagione più morta dell’anno. Morta e sepolta.

Dalla veranda ben riscaldata della trattoria si vede il pendio di fronte. Ha ripreso a piovere e la nebbia si è alzata lasciando la valle nuda: tutto il mondo è nudo.
Non posso fare a meno di pensare che chi viveva nei monti doveva avere come primo pensiero quello coprire questa nudità, uccidere il freddo e togliersi di dosso la sua mortale umidità. Scogli in mare che aspettavano che passasse il freddo e ritornasse la luce per riprendere la loro vita sospesa.

Liberati dal freddo, sollevati dalla fame, beneficati dalla luce accesa e spenta a nostro piacimento, dimentichiamo che nulla è dovuto e nulla è comunque garantito.
Ma più che a noi continuo a pensare a loro e alle loro case, fatte solo di muri, tetto e un focolare. Senza punti luce da regolare a volontà. Senza caldo diffuso appena si passa la soglia di casa. Senza acqua se non quella del secchio riempito alla fonte. Senza gabinetto! Con pochi ed essenziali mobili o incavi nel muro, e d'altronde con così poca roba da metterci dentro che erano più che sufficienti. Senza cibo se non quello che si poteva conservare dopo averlo preparato, non comperato, e qualche volta anche senza quello. Senza la possibilità di aprire ogni volta che si vuole un armadio per cercare un capo pulito o più caldo oppure lo sportello dei medicinali se c’è qualcosa che non va e poi la mattina successiva chiamare il medico di famiglia. Senza poter risolvere le emergenze con una telefonata e con le distanze misurate solo dai propri passi. Con la fatica per le braccia e non per le macchine.
In breve tutta la vita come il più scomodo dei bivacchi che possiamo aver sperimentato.


Poi penso anche a me che stasera non ho la connessione internet e ai problemi che questo mi crea: forse la mia ricerca di essenzialità deve fare ancora molti passi prima di potermi considerare soddisfatto.

Mi solleva però il fatto che non do per dovuto tutto ciò che ho e che quando sono in trattoria riesco a vedere non solo dentro, ma -leggermente asociale e come sempre leggermente fuori posto- anche fuori, verso il pendio di fronte.  

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